In ricordo di un campione vero
Scritto da Redazione il 30/10/2014
A volte mi domando quanto il destino possa seguire percorsi inimmaginabili per noi, che in fin dei conti siamo chiamati ad una effimera e breve permanenza nel mondo dell’esistenza. Incomprensibile nella sua essenza, impossibile persino da delimitare nelle anguste definizioni di indefinito o infinito.
Chissà quante volte, da quando seguo il Perugia dai gradoni dello stadio, avrò sentito pronunciare il nome di Renato Curi. Io, per motivi anagrafici, non ebbi la fortuna di seguire da vicino le gesta di quel campione e di quella squadra che negli anni Settanta fecero sognare una città intera, portandola per la prima volta nella sua storia in serie A, centrando imprese in più di un’occasione contro le grandi squadre del massimo torneo, raggiungendo la Coppa Uefa, sfiorando lo scudetto e concludendo un intero campionato senza neanche una sconfitta.
Ho rivissuto in miniatura, forse, la gioia di quegli anni, nei quattordici anni dell’era Gaucci, che mi hanno comunque emozionato e che hanno più volte, secondo il giudizio di molti, ripercorso, seppur in piccolo ed in misura comunque minore, le grandi gesta di quello storico Perugia dei Miracoli.
Ci sono persone che sarebbero molto più adatte e indicate di me nel narrare quegli anni, persone che ai tanti bei ricordi possono aggiungere anche i momenti tristi, quelli in cui andare allo stadio è stato addirittura avvilente. Ma questo pubblico ci è abituato, e non ha mai mollato. D’altronde, chi, oltre i tifosi del Grifo, può vantare di aver trascinato ventimila cuori nella lontana Foggia, per uno spareggio di serie C? Chi, oltre i supporter biancorossi, può dire di aver praticamente “invaso” cittadine o piccole province come Luco dei Marsi, Fano, Andria, Rimini, Siena (che all’epoca aveva una curva fatta di erba e di terra) e via di seguito? Chi può dire che, malgrado i due fallimenti, questo pubblico abbia mollato lo stadio in massa? Nessuno. L’entusiasmo di quei quarantamila nell’allora neonato Comunale non è mai scomparso e oggi, col nome di “Renato Curi” ed il ritorno in serie B, sembra poter accompagnare una nuova stagione di successi, come già avvenne negli anni Novanta e nei primi anni Duemila.
Ricorre proprio in questo 30 di ottobre il trentasettesimo anniversario della morte del numero otto per eccellenza del Perugia e, come un testimone indifferente al passare degli anni, di generazione in generazione, ogni anno, con cori e coreografie, il ricordo di Renato dal cuore d’oro (in campo e fuori), viene sempre e comunque onorato. Non esistono categorie, non esistono divisioni, non esistono contingenze, di fronte ad un calciatore assurto a simbolo ed emblema per tutto il popolo biancorosso.
Non è esente dai tributi, sentendone il dovere, anche chi, come me, in quel piovoso 30 ottobre 1977, in quel terribile Perugia-Juventus durante il quale Renato Curi si accasciò improvvisamente a terra, non c’era. Sgomento, dolore e orrore dinnanzi alla notizia, appena un’ora dopo l’immediato ricovero, che Renatino, il simbolo del Perugia miracoloso di allora, si era spento a soli 24 anni, nel momento più importante della sua carriera calcistica.
Ogni anno, in occasione della partita che precede o che segue di poco la triste ricorrenza, a Pian di Massiano si respira un’aria strana. Le fanzine agli ingressi celebrano la data con tante foto del suo volto, i primi freddi fanno capolino tra l’odore acre dei fumogeni e il rumore del Luna Park che, ogni ottobre, raggiunge la città proprio di fronte allo stadio. L’atmosfera è sempre particolare, i gruppi ultras preparano le loro coreografie per Renato e spesso capita che, ad un certo punto della gara, il Perugia trovi la giocata vincente in modo insperato o insolito. Come se lui fosse lì, a vigilare la tre quarti e ad aggredire l’area avversaria. Un avversario che nessun difensore può marcare.
Andrea Fais-www.tifogrifo.com