Perugia. “Mini-Curi” già bocciato dai tifosi, ipotesi minimale, inutile e inadatta per la città
Scritto da Redazione il 10/09/2020
E’ passata ormai una settimana dalla trasferta romana della delegazione del Comune di Perugia per sondare la disponibilità di Cassa Depositi e Prestiti (Gruppo CDP) e del Credito Sportivo a finanziare i lavori di rifacimento dello Stadio “Renato Curi”. Non essendo stato ancora pubblicato, il progetto presentato dall’Amministrazione comunale resta fondamentalmente un’incognita. Tuttavia, le indiscrezioni pubblicate dalla stampa locale hanno già fornito spunti di riflessione, facendo immancabilmente discutere in città.
Sappiamo così che sette giorni fa il Sindaco Andrea Romizi, l’Assessore allo Sport Clara Pastorelli e alcuni tecnici del Comune hanno incontrato Fabrizio Palermo (AD di Cassa Depositi e Prestiti) e Andrea Abodi (presidente del Credito Sportivo) per valutare l’ipotesi di realizzare, nell’area attualmente occupata dai campi di allenamento, un impianto completamente nuovo da 15.000 posti (c’è chi parla di 14.000), «concepito come una struttura polifunzionale, in cui andrebbero accolti servizi commerciali e, sulla scorta di quanto accade in tantissime altre città, concerti», per un investimento totale di 35 milioni di euro [Fonte: Umbria24].
La reazione dei tifosi sui vari social non si è fatta attendere e sembrano in netta maggioranza coloro che hanno espresso forti perplessità su questa ipotesi di progetto, specie considerando che l’attuale Stadio “Renato Curi” ha una capienza massima omologata di 28.000 posti, ben più adatta alle dimensioni della città e al blasone della squadra. Saltano anzitutto all’occhio i costi, elevatissimi, tanto da richiedere un impegno molto superiore ai 20 milioni di cui si parlava lo scorso anno per la ristrutturazione profonda dell’impianto attuale.
Capienza insufficiente
Il nodo senz’altro più controverso è quello relativo alla capienza. Proporre uno stadio da 14-15.000 posti significa non conoscere la normativa in vigore per la Serie A, che richiede un minimo di 16.000 posti a sedere, oppure ritenere che il Perugia non debba mai più tornare nella massima categoria e che il nuovo stadio non debba comunque ospitare incontri internazionali. Con una capienza del genere, se mai i grifoni dovessero un giorno tornare ai piani alti del calcio italiano, la società sarebbe così costretta a chiedere una deroga o, peggio, ad emigrare in un altro stadio.
Il progetto citato come riferimento da vari organi di stampa è quello del “Benito Stirpe” di Frosinone, realizzato sul terreno del vecchio “Casaleno”, iniziato negli anni Ottanta e mai completato, tanto da costringere i giallazzurri laziali a giocare per altri trent’anni al “Matusa”, fino al trasferimento di tre anni fa nel nuovo impianto, capace di 16.227 posti, appena giusti per la Serie A. Eppure, qualcosa non torna.
Frosinone è un comune di 46.063 abitanti, capoluogo di una provincia di 487.537 abitanti, molti dei quali già tifosi di Roma, Lazio o Napoli come fisiologica conseguenza sociale in una piazza che fino al 2006 aveva conosciuto soltanto la terza serie. Perugia è un capoluogo di regione di 167.000 abitanti, che salgono a 188.000 considerando il contermine comune di Corciano, ormai di fatto appendice dell’area urbana cittadina, e guida una provincia di 645.195 abitanti.
Escludendo comprensori calcisticamente più “ostili”, come Foligno (per altro non del tutto), Gubbio o le aree di confine con il ternano, molti appassionati di calcio della provincia sono tifosi del Perugia o comunque sono affettivamente legati alle sorti della compagine biancorossa, e decidono di frequentare lo stadio almeno qualche volta durante la stagione calcistica, aumentando le presenze al “Renato Curi”. Ne è testimonianza l’elevato numero di Perugia club sorti negli anni Settanta e, in particolare, durante l’era Gaucci, quando il tifo organizzato sconfinò addirittura fuori regione, sino a raggiungere Roma e Firenze. Del resto, i dati di affluenza in occasione di partite importanti sono lì a dimostrare, anche recentemente, un’attrattività imparagonabile a quella di piazze molto meno blasonate come, appunto, Frosinone.
Senza scomodare i 35.000 spettatori fissi ad ogni partita interna nel quinquennio d’oro della seconda metà degli anni Settanta, quando i grifoni, imbattuti, sfiorarono la vittoria dello scudetto, o i picchi di 25/30.000 spettatori nell’era Gaucci, è sufficiente osservare qualche dato del botteghino negli ultimi 6-7 anni: l’amichevole contro la Roma del 31 luglio 2019 fu vista da 17.277 spettatori, la semifinale di ritorno dei playoff di Serie B del 30 maggio 2017 contro il Benevento da 18.231 spettatori, il derby di campionato contro la Ternana del 22 novembre 2014 da 16.124 spettatori e la decisiva vittoria sul Frosinone in Lega Pro del 4 maggio 2014 da 19.579 spettatori.
A questo si aggiunga la questione del settore ospiti. Lo Stadio “Benito Stirpe” riserva ai tifosi in trasferta appena 1.035 posti, un numero esiguo, specie in occasioni di gare contro avversarie importanti e geograficamente vicine come Roma, Lazio o Napoli, aumentando il rischio di tensioni e incidenti per la compresenza di tifosi di fedi contrapposte negli altri settori dello stadio.
Progetto o scommessa?
C’è poi il capitolo relativo alla sostenibilità finanziaria, tutt’altro che secondario. Se davvero, come si è scritto nei giorni scorsi, il nuovo impianto dovesse diventare, più estesamente, una struttura polifunzionale, sarebbe da chiedersi in che modo il progetto potrebbe inserirsi in un’area caratterizzata da un assetto commerciale già “appesantito”. Tra Via Cortonese, Ferro di Cavallo e Centova sorgono ormai numerose attività di ristorazione, vendita al dettaglio e intrattenimento: McDonald’s, Menchetti, Ferretti, Bandito, Borgonovo Center, Metropolis (terminal Minimetro), Barton Park, Coop, Oasi, Eurospin, Pam ed altre ancora, cui si aggiungeranno ben presto Conad e Roadhouse nel complesso dell’ex Sulga di fronte alla Questura. Insomma, chi scommetterebbe che le attività commerciali annesse all’ipotetico nuovo stadio garantirebbero annualmente le entrate necessarie a rientrare dei costi sostenuti? Dove sarebbero ricostruiti, inoltre, i campi di allenamento?
Soluzione più logica, e senz’altro meno dispendiosa, sarebbe quella di una ristrutturazione dell’impianto esistente, ipotesi a quanto pare ritenuta impraticabile. Non sappiamo, al momento, se per problemi di natura orografica (ad esempio l’eccessiva vicinanza della Tribuna coperta al torrente Genna) o tecnica (impossibilità di modificare alcune strutture esistenti). Eppure, in diverse realtà provinciali paragonabili per tradizione e blasone a quella di Perugia, si sta procedendo in questa direzione. Quattro esempi calzanti ci vengono da Udine, Ferrara, Bergamo ed Ascoli. Salvare il campo di gioco e, laddove possibile, la tribuna coperta originaria rappresenterebbe un elemento di continuità architettonica, evitando sia di sconvolgere bruscamente il rapporto tra passato e futuro che di cancellare la nostra storia. A meno che le logiche non siano altre.
Quando l’intervento pubblico, il legittimo interesse privato e le aspettative della tifoseria convergevano verso un’unica direzione, Perugia poteva dirsi all’avanguardia in tutto e per tutto. Nell’estate del 1975, in poco più di tre mesi, vide la luce quello stadio che ancora oggi ospita le partite interne dei grifoni. L’impegno e la passione di Spartaco Ghini e della sua Sicel, agevolato e supportato dai sindaci Mario Caraffini e Giovanni Perari nonché dall’Assessore allo Sport Mario Silla Baglioni, riuscirono in un’autentica impresa: consegnare alla città un nuovo impianto per la prima partita di Serie A della sua storia. Diversa sorte, purtroppo, toccò al progetto pensato da Luciano Gaucci dopo il ritorno nella massima serie nel 1996. Le incomprensioni con le nuove giunte comunali impedirono al vulcanico patron di ammodernare lo Stadio “Renato Curi”, facendone una struttura innovativa ed omologata per ospitare gli Europei di Calcio. Oggi, invece, si pensa addirittura di fare un impianto da zero ma piccolo, minimale e freddo. In tutto ciò il calcio, la passione e l’aggregazione popolare sembrano aspetti secondari.
Redazione